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Generazioni

La linea temporale

La linea tematica

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Introduzione A peste, fame et bello libera nos, Domine Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po' di retorica. Nel primo caso l'abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio (Albert Camus, La peste) Ogni generazione si connota a seconda del suo tempo: nel secolo appena trascorso c’è stata la generazione ‘della guerra’ e quella del ‘boom’ economico, quella del ‘Sessantotto’ e quella degli ‘yuppy anni Ottanta’ e via così. Gli adolescenti di oggi potrebbero essere quelli ‘del Covid e della Dad’, una generazione nell’epidemia. Le epidemie, come tutti gli eventi epocali, hanno segnato, nel corso dei secoli, le grandi dinamiche sociali e le piccole vite di ognuno. Peste, lebbra, tifo, vaiolo, colera, influenze particolari: questi ‘flagelli’, spesso venuti dall’Oriente, hanno un impatto formidabile sulla demografia, sullo sviluppo sociale ed economico, sulla cultura di un popolo. E poi c’è fame, malnutrizione e guerre che incidono sull’evolversi delle epidemie. Tutto questo lo leggiamo dai nostri documenti: uno sguardo che abbraccia le azioni e le opere dei ‘grandi’ per arrivare alla quotidianità dei ‘piccoli’. È la storia del quotidiano, quella che non appare sui libri di storia, che si incrocia o va in parallelo agli eventi. È anche il cammino della chiesa che si prende cura degli uomini e delle donne, che si accompagna a loro attraverso la storia, a partire da conoscenze scientifiche ridotte, con linguaggi differenti, attraverso carismi diversi, ma con costante vicinanza e prossimità all’uomo, nella sua interezza.

Regolamenti e istituzioni, Busta 58_COLERA E VOX POPULI

Si può accedere ai documenti seguendo due possibili percorsi: - la linea temporale, scorrendo cioè gli eventi epidemici bresciani in successione cronologica; - la linea tematica, organizzata in argomenti. All’interno di ognuna delle due sezioni, cliccando sui pulsanti o sul testo stesso, si aprono nuove pagine, le immagini di documenti, alcuni testi e, per Epidemie in città, lo speech relativo, oltre alle segnature corrispondenti. In alto a destra di ogni pagina trovate questo simbolo: cliccando su di esso verranno evidenziati tutti i link della pagina.

Generazioni nelle epidemie

nel bresciano

Lazzaretto di S. Bartolomeo

Peste de mazzucco

Estratto da “Cenni storici” par 1.1., dall’Analisi storico-critica dell’ Architetto Paolo Benedetti per il Restauro dell’edificio noto come “ex Lazzaretto di S. Bartolomeo”. La documentazione sicura dell’esistenza del lazzaretto si ha a partire dal secolo XV, quando il Comune di Brescia decise di scegliere questo posto come sede del lazzaretto civico. All’inizio, questo lazzaretto era composto alla meglio da baracche, tettoie, capanne ed era confinato nell’antico priorato degli agostiniani. A partire dal marzo del 1478 una gravissima pestilenza (chiamata “mal del mazzucco”) si stava diffondendo nella città di Brescia. Gli infetti furono trasportati in massa nel lazzaretto che venne ingrandito con nuove baracche e affidato alle cure di un numero maggiore di medici assunti dal Comune. Dopo questa pestilenza che colse tutti impreparati, il Comune di Brescia decise di affrontare radicalmente il problema strutturale del lazzaretto di S. Bartolomeo e di garantirgli un’organizzazione più efficiente e sicura. Le provvisioni comunali del 12 luglio 1482 davano il via ai lavori con la costruzione di un nuovo e spazioso edificio quadrilatero a due piani con portici, logge, corsie, diverse stanze ed un ampio cortile interno, capace di accogliere diverse centinaia di malati. Nel 1490, il lazzaretto cittadino era finito, risultava un fabbricato imponente e massiccio, molta ampio ed arieggiato, comodo e ben arredato. Nel 1630 si abbatté sulla città una nuova pestilenza (la “peste del Manzoni”) durante la quale furono costruite molte capanne, dette “casotti e tese”, in prossimità e a sussidio del lazzaretto decisamente insufficiente. Il grande cimitero che raccoglieva nelle fosse comuni tutti i malati deceduti nel lazzaretto si stendeva davanti alla chiesa ed era circondato da un’alta muraglia: quivi furono seppellite le migliaia e migliaia di vittime delle epidemie che infierirono sulla città lungo il corso dei secoli. Dopo queste tremende pestilenze il morbo mortale si fece sentire meno, di conseguenza il lazzaretto divenne meno necessario e si avviò verso l’inesorabile declino fino ad essere abbandonato come ricovero contumaciale. Dalla metà del secolo XVII quindi, aprendosi una stagione di relativa calma sanitaria, il fabbricato del lazzaretto rimase inutilizzato e lasciato da parte, spianando la strada ad un suo graduale uso abitativo privato. L’antico fabbricato a pianta quadrata fu demolito per circa tre quarti nella seconda metà del secolo XIX, dal 1861 al 1864. Nella mappa napoleonica del 1823, nonché nella mappa austriaca del 1852 è ancora ben individuato l’intero edificio quadrilatero con la precisa denominazione di lazzaretto, ma già adibito ad abitazioni, mentre nella successiva mappa italo-austriaca del 1898 il quadrilatero scompare lasciando solo il braccio meridionale e l’inizio di quello orientale a uso di abitazioni private. Più tardi nel 1888, parte dei locali del fronte meridionale fu oggetto di un intervento di riuso su progetto dell’Ufficio Tecnico della città di Brescia, intenzionato a ricavarne spazi per le scuole comunali. Le rimanenti stanze, ad eccezione dell’appartamento del cappellano, continuarono ad essere affittate. La questione della proprietà di questo luogo tra il Comune di Brescia e la Curia, che era in sospeso dal 1451, venne definitivamente chiusa solo nel 1961 quando, con atto notarile, l’edificio con area dell’ex lazzaretto, compresa la chiesa vecchia del 1700, è passato alla parrocchia di S. Bartolomeo che ne ha fatto beneficio parrocchiale con la casa canonica, l’abitazione del curato, aule e spazi per l’oratorio. (in Archivio corrente Ufficio beni Culturali, “Cenni storici” par 1.1., estratto dall’Analisi storico-critica dell’ Architetto Paolo Benedetti per il Restauro dell’edificio noto come “ex Lazzaretto di S. Bartolomeo”)

XV sec.

Documenti

peste e sacco di brescia

1512: la peste e il sacco di Brescia Immagini tratte da: Fondo Religiosi, Busta 35, Religiose S. Croce fasc. 2 Testo tratto da Enciclopedia Bresciana, vol. XII, ed. La Voce del Popolo, 1996, p. 362. (http://www.enciclopediabresciana.it/enciclopedia/index.php?title=PESTE) : “La peste si ripresentò nel febbraio 1512, in concomitanza con il terribile "sacco" di Brescia da parte delle truppe di Gastone di Foix che colpirono gli stessi Lazzaretti di S. Bartolomeo e di S. Matteo, dai quali vennero scacciati gli ammalati, e «rapite e disperse le loro cose». La situazione sanitaria, diventata gravissima, richiese dei provvedimenti straordinari. Non appena l'esercito francese lasciò la città, il primo giorno di quaresima (25 febbraio) le autorità municipali nominarono quattro ufficiali sanitari con, al loro servizio, numerosi becchini per portare fuori dalla città i morti insepolti. Il giorno 8 luglio 1512 vennero nominati altri deputati all'igiene per cercar di combattere la peste che aveva ormai superate le mura della città e mieteva vittime su vittime nei territori circostanti (…). Aggiuntasi, per la scarsità d'acqua e l'inquinamento da peste, una gravissima epidemia di dissenteria, si registrarono nell'estate 1512 dalle 30 alle 40 vittime «sia col bubbone della peste, sia in preda alle crisi dolorose e alle scariche emorragiche della malattia intestinale». Morivano, scrive Marin Sanudo, sia bresciani che soldati francesi, i rimedi erano pressoché palliativi, scarsi, e mal diretti, perché «non si trova medici per el sospeto del morbo; né barbieri che voglia salassar non si trova zucharo né medexine». Scrive il Pasero: «e nelle case giacevano gli infermi, ove i guasconi entravano senza riguardo, asportando roba e sempre più diffondendo l'infezione anche tra di loro». In quel terribile agosto morirono, ha registrato il Doneda, nel solo monastero di Santa Croce, ben 14 monache per la peste. Nonostante le misure prese, e la stagione invernale nemica del morbo, nel febbraio 1513 le vittime erano ogni giorno decine. Il Lazzaretto di S. Bartolomeo si dimostrava insufficiente, e la città veniva abbandonata da quanti potevano, mentre, veniva proibito qualsiasi assembramento fino al 30 luglio. Poi ci fu la consueta remissione invernale”.

1512

Lettera del Vescovo Bollani

Brescia, desolata dalla peste (1577) Brescia, 1577 settembre 10.Lettera del vescovo Domenico Bollani a papa Gregorio XIII [Biblioteca Ambrosiana, Epistolario Bollani-Roveglio, dalle trascrizioni di don Armando Scarpetta] Intro Domenico Bollani, infaticabile vescovo cinquecentesco, ragguaglia papa Gregorio XIII circa la pesante situazione della peste nel bresciano: la città è una desolazione, si è ridotta a tremila abitanti e il lazzaretto, gestito da padri Cappuccini, fatica a contenere un numero spropositato di persone, oltre milleseicento. Il vescovo decide di spostarsi fuori città per poter essere disponibile per coloro che vengono da fuori Diocesi e che in città non possono entrare per le misure di sicurezza sanitaria. La parola quarantena, così quotidiana in questo nostro tempo, ritorna spesso e ci fa rivivere un dramma ricorrente nei secoli. Il vescovo Domenico Bollani scrive a papa Gregorio XIII testo Da Brescia, alli 10 di settembre 1577, Beatissimo padre, vengo con la presente a piedi della Santità vostra, dandole sincero conto dello stato generale delle cose di qua, nell’occasione del rabbioso travaglio della peste, che ha ridotta questa misera città quasi a totale desolazione, non restando al presente in essa più che tremila abitanti, delli quali continua a morirne ogni giorno qualcuno e, ciò che ci fa più temere, è il veder diffuso il male in diverse terre della diocesi. Questa estate ne sono morti al giorno trecento, con ciò mi sono anco mancati, con mio gran dolore, molti buoni sacerdoti, se ben con grazia del Signor, le anime non hanno mai patito della mancanza dei sacramenti più necessari, avendomi anco in ciò dato sempre grande consolazione i padri cappuccini dentro al lazzaretto, nel quale, al presente, si trovano intorno a mille e seicento persone. Si attende parimenti in ogni parte della diocesi a ferventi orazioni. La cattedrale si appestò anch’essa, per cui restò abbandonata dai canonici e dagli altri ministri. Alla fine si appestarono li miei servitori, et vedendone ogni giorno morire qualcuno, con manifesto pericolo della mia vita e vedendo inoltre che il mio star qui sequestrato, m'impediva l'adoprarmi in ciascun bisogno dentro e fuori della città, mi risolsi di non far quarantena chiuso in casa, ma spostarmi nei sobborghi della città, in modo da poter supplire insieme ai bisogni di essa e a quelli del lazzaretto, e anche non abbandonare quelli della diocesi, nel poter far ricorso a me in diverse loro occorrenze, essendogli in tutto vietato l'ingresso nella città dalle loro terre per il pericolo del contagio. Quando finirà il tempo della quarantena del vescovato, farò purgare le stanze e robe di esso, per rimettermi dentro, con l'aiuto Divino, la prossima settimana Devotissimo servo, Domenico, vescovo di Brescia

peste di s. Carlo borromeo

Servire gli appestati (1576) Lodi, 1576 agosto 25. Lettera di fra Paolo Bellintani all’arcivescovo Carlo Borromeo [Brixia sacra. Memorie storiche della Diocesi di Brescia, n.s., XI (1976), 3-4, p.51, lettera tratta da Biblioteca Ambrosiana, Epistolario di S. Carlo, Lodi 25-8-1576 F. 136 inf. 518 ] Intro Consola sapere che lo slancio della testimonianza e del servizio agli ultimi più emarginati sia sempre stato perseguito da tanti uomini e donne all’interno della chiesa. E’ il caso di fra Paolo Bellintani (Mattia, come religioso) frate cappuccino, infaticabile predicatore, ma altrettanto generoso e instancabile nell’azione: in questa lettera chiede all’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo di poter servire nel lazzaretto di Brescia. Testo Da Lodi alli 25 Agosto 1576 Illustrissimo et reverendissimo monsignor Pax, avendo io inteso la grande mortalità di persone e l’abbandono di chi li serve anche nell’amministrare i Santissimi Sacramenti, inspirato dal Signore, ho scritto ai miei superiori che mi facessero grazia di andar là, a far questa opera santissima tanto a Dio grata, e al mondo edificatoria, pen­sando che Iddio al presente voglia in questo compito servirsi di me.

1576-1577

tifofebbre petecchiale

Testo tratto da Enciclopedia Bresciana, vol. xix, ed. La Voce del Popolo, 1996, pp. 6-8. http://www.enciclopediabresciana.it/enciclopedia/index.php?title=TIFO Nonostante il suo continuo manifestarsi sotto le forme più diverse, il nome "tifo" compare soltanto alla fine del Settecento col Boissier de Sauvages, che usò la parola "tifo" (dal greco typhos) a indicare lo "stupore", l'ottundimento causato dalla febbre alta nei colpiti. Il termine comprende in realtà malattie infettive ben distinte: il tifo addominale o enterico o ileo-tifo e il tifo petecchiale o tifo ricorrente. (…) Nel 1567 è segnalato a Desenzano, dove, come registrano le cronache del tempo, "passò con poca mortalità di popolo", di cui fu dato merito al dott. Andrea Graziolo (v.), uno specialista in materia di peste, e al chirurgo Pietro Giudici. Il 6 marzo 1579 per sospetto di petecchie manifestatesi a Tirano di Valtellina, veniva chiuso il passaggio per la Valcamonica e il Trentino. Confuso, in seguito, spesso con la peste, doveva ripresentarsi di nuovo in forma cruda a distanza di secoli. Nel 1799, infatti, il tifo petecchiale si manifestava nelle campagne di Cazzago, Rovato e Coccaglio, portato dai prigionieri e disertori tedeschi accolti o curati dai contadini. Venne affrontato con una certa energia, ma ricomparve dopo una decina di anni, ai primi di marzo del 1808, a Gottolengo, in due stalle dove vivevano nell'una il padre, nell'altra due figli, di origine genovese ma provenienti dal Parmense. Dopo che furono portati all'ospedale di Brescia, la malattia si manifestò a molti che avevano frequentato le stalle.

fine 1500

Chiesa di S. RoccoLimone sul Garda

Interno della chiesa di S. Rocco - Limone sul Garda

peste del manzoni

Chiesa di S. Rocco-Limone del Garda (vedi foto nell'altro link) 1529-Limone- la chiesa di S. Rocco e la peste- [Inventario dei beni mobili della Diocesi di Brescia. Sezione CEI (anni 2004-2015)]La costruzione della chiesa di S. rocco sembra essere avvenuta (secondo l’ipotesi più accreditate tra le varie fatte) nel 1529 come ex voto per preservazione o per guarigione dalla peste che nel 1529 aveva colpito anche Limone. Nel 1630, anno della peste “del Manzoni”, si trovano in parecchi testamenti molti lasciti alla chiesetta di S. Rocco. Il santo aiutò anche nelle epidemie successive non solo di peste, ma anche di tifo (nella visita pastorale del vescovo Corna pellegrini del 1886 si fa cenno ad un voto di due secoli prima probabilmente riferito all’epidemia di tifo del 1672) e febbre spagnola (nel 1923 il circolo giovanile mons. Comboni raccolse una somma per celebrare messe nella chiesetta per la cessazione delle malattie.

1630

Invito alla preghiera

vaiolo

1700

1816-1819

Corrispondenza

Carestia ed epidemie (1817) Malonno, S. Colombano, Pisogne, 1817. Carteggio tra i parroci e il vescovo [Corrispondenza particolari, busta 17, anno 1817] Intro Le epidemie spesso si sono accompagnate a gravi carestie: la popolazione, stremata già dalla malattia, in questo caso il tifo, deve sostenere la mancanza di cibo, riducendosi spesso a mangiare l’erba o ancora peggio, i semi che avrebbero dovuto essere utilizzati per la semina. Le situazioni descritte e condivise dai parroci sono drammatiche. Testi Malonno, 25 gennaio 1816 Il parroco don Francesco Piovani scrive al vescovo. Per non turbare l’animo sensibilissimo di vostra eccellenza reverendissima, credo ottima cosa il tacere lo stato di questa mia popolazione e vicarìa: non si può non piangere all’udire che la generalità si pasce di fieno e che non mancano di quelli che si ritrovano estinti con le dita fra denti: qui non si desidera la raccolta, ma si spasima perché l’erbe non germoglino nei prati. S. Colombano, 10 febbraio 1817 Il parroco Pietro Zanoni scrive al vescovo Il terribile flagello, con cui Dio punisce attualmente le iniquità degli uomini, ci pone sott’occhio uno spettacolo di desolazione e di miseria. Il livido pallore che si legge sul volto di non pochi, l’indebolimento delle membra prodotto dall’inedia, il vacillar delle gambe, mostra quanto siano in diritto d’ essere aiutati. Il terreno è infruttuoso e al più produce il fieno e qualche poco di orzo. Un solo scampo rimarrebbe ad alcuni miseri miei parrocchiani per procurarsi un qualche sostegno e sarebbe quello delle così dette patate: ma ahi, che la fame di quest’inverno si ha divorata per molti anche la semenza. Pisogne, 18 febbraio 1817 Il parroco Giovanni Battista Gelmini scrive al vescovo. Sono del tutto perduto di coraggio, di tener vivi molti dei miei parrocchiani almeno fino all’imminente fienagione. Le migliori famiglie posso dire che hanno fatto, benché contadini, degli sforzi grandi. Ma sono ora abbandonati alla miseria. Inquieta che tre famiglie numerose sono ridotte a non poter avere più del suo miserabile letto. Si sperava nelle sagge misure del governo, ma sin ora però non altro si fa che sperare e languire. Malonno, 28 maggio 1817 Il parroco don Francesco Piovani scrive al vescovo. Il Signore fino ad ora ci ha preservati dalla petecchiale, ma la fame va sempre crescendo ed i suoi colpi cominciano a farsi mortali; in due mesi ne abbiamo seppelliti 40 e 30 di questi per sola stentata inedia. In ogni momento si incontrano quelli che appena si possono reggere in piedi. Sono già cinque mesi che la maggior parte si nutre solo di erbaggi.

tifo petecchiale

vaiolo

Circolare del Vicario Generale

xix seC.

1836-1867

S. Maria Crocifissa

Cerveno

metà '800

Registri dei morti

ileotifotifo addominale

NB: nei registri le cause di morte non riportano la distinzione dei tipi di tifo, pertanto si trova febbre tifoideia o tifo e non ileotifo Testo tratto da Enciclopedia Bresciana, vol. XIX, ed. La Voce del Popolo, 1996, pp. 6-8. http://www.enciclopediabresciana.it/enciclopedia/index.php?title=TIFO ILEOTIFO “Scomparso quasi del tutto il tifo petecchiale, l'attenzione si andò concentrando sul tifo addominale o ileo-tifo, che dalla metà dell'800, per il peggioramento delle condizioni di vita igieniche delle popolazioni e altre cause, assunse forme endemiche, diventando una delle cause più frequenti di decesso, dopo la pellagra e prima dei tumori allo stomaco e delle malattie delle arterie. Come ebbe a documentare il direttore di sanità di Brescia, il ten. col. medico Da Vico in "Cenni sulle cause delle malattie tifiche in Brescia", nel "Giornale di Medicina" del 1884, se ne dava colpa "alle condizioni atmosferiche, derivanti dalla posizione topografica della città e alle condizioni del sottosuolo della città stessa, all'inquinamento delle acque". Una riprova di ciò veniva vista dal Da Vico dalla morbilità delle truppe stanziate a Brescia. La ricerca rilevava infatti che i decessi per tifo di militari di truppa dal 1866 al 1883 erano stati 248 in confronto ai 491 morti per altre malattie, su un totale di 739. Dai 25 casi di morte nel 1866, dai 28 nel 1867, dopo essersi aggirati sotto i 10 fino al 1879, salivano a 36 nel 1879, 25 nel 1881, 21 nel 1882, 57 nel 1883. E proprio negli anni '80 veniva avvertita una crescente recrudescenza della malattia fra la popolazione. Infatti le statistiche nel 1882 rivelavano come il tifo mietesse a Brescia 387 vittime su 10 mila abitanti, mentre la media del Regno d'Italia era di 287. La situazione era aggravata, come scriverà A. Magrassi in "Brescia sanitaria 1880-1950", dal fatto che negli anni '80 del sec. XIX "per il tifo, la denuncia era obbligatoria soltanto in caso di morte, mentre non esisteva nessuna possibilità di isolamento per gli affetti da tale malattia. Pertanto la maggior parte di essi veniva curata nelle case e gli spedalizzati erano ricoverati nelle infermerie comuni in mezzo e a contatto con tutti gli altri ammalati. Superfluo aggiungere che non si conoscevano e non si usavano adeguati mezzi di disinfezione o di sterilizzazione. Per tali sfavorevoli condizioni l'infezione tifosa poteva rapidamente estendersi fra la popolazione stabile e anche in quella transitoria, come le guarnigioni militari temporaneamente di stanza a Brescia, così che talvolta le truppe dovevano essere urgentemente allontanate in massa dalla nostra città". Al diffondersi della malattia posero la loro attenzione medici e pubblici amministratori. Nel solo 1884 dedicano studi al tifo o febbre tifoide i medici F. Gamba, A. Maraglio, R. Rodolfi. Solo nel comune di Brescia nel 1883 mieteva 102 vittime, 201 nel 1884, scemando solo negli anni seguenti, ma rimanendo fra le cause principali di mortalità. La mortalità a causa del tifo poneva Brescia nel 1898-1899 al quinto posto, al quarto nel 1900, all'ottavo nel 1901 fra i 27 comuni con più di 60 mila abitanti. Nel 1890 l'ufficiale sanitario di Bedizzole, il dott. Emanuele Anselmi, denunciava come a fine inverno, appena cessata una "generale epidemia di influenza, nel mese di aprile se ne era diffusa un'altra più grave e pericolosa: l'ileo-tifo". Da aprile a dicembre a Bedizzole l'epidemia colpì 135 persone, facendo cinque vittime. Agli inizi si ammalarono di più i ragazzi e le ragazze dai 10 ai 15 anni, in seguito gli adulti, rari i vecchi. In compenso si ebbe un solo caso di tifo petecchiale. Anche negli anni seguenti la "febbre tifoidea" tenne per decenni il campo sanitario, continuando a registrare la massima diffusione subito dopo quella della pellagra.”

Carteggio tra il Vescovo Nava e il Delegato provinciale

Colera e vox populi (1836) Brescia, 1836. Carteggio tra il vescovo Gabrio Maria Nava e il Delegato provinciale [Regolamenti e istituzioni, busta 58, anno 1836, fascicolo 577, n. 247] Intro In ogni epidemia si rincorrono voci false, fake news che contribuiscono ad alimentare dubbi e ad esasperare gli animi nella popolazione. Così accade anche a Brescia, dove il Delegato provinciale chiede al vescovo di intervenire per sradicare l’infamante accusa che i medici propinino ai malati di colera del veleno. Così scrive il Delegato al vescovo: Testo “Vengo informato che nel volgo va sempre più diffondendosi l’opinione che dai medici si propini un segreto veleno agli ammalati di colera e che dei male intenzionati vanno fomentando questa trista incredulità del popolo. La prudenza quindi consiglia di accorrere al riparo di un pregiudizio più grave prima che prorompa in qualche aperto disordine. Mi parrebbe che a miglior esito potrebbe inserire l’intervento dell’autorità ecclesiastica per mezzo dei parroci che in questa circostanza accorrono a prestare l’assistenza religiosa agli ammalati e si introducono nelle case e nelle famiglie dove più facilmente si promuovono le dicerie”. Il vescovo subito accoglie l’appello e scrive al clero: “Sentiamo con sorpresa e rammarico insieme come nel basso popolo sia invalsa l’opinione che da medici destinati alla cura degli infermi attaccati dal morbo colera vengano somministrate medicine non solo inette alla guarigione di siffatto morbo, ma nocive alla salute, tendenti anzi ad accelerare la morte. Questa opinione destituita di fondamento produce i tristi e perniciosi effetti di screditare in l’arte medica e i benemeriti soggetti che la professano e di alienare gli animi degli ammalati dal giovarsi degli opportuni e forse unici soccorsi; quindi ragion vuole che tale pregiudizio sia quanto prima combattuto e dissipato. A tal oggetto ci diamo premura di inviare tutti i reverendi sacerdoti della città affinché cerchino di sradicare dalla mente degli ammalati e da quelli che li avvicinano questa falsa persuasione”

forma influenzale

1837

1918

Raccomandazioni del tempo...

spagnola

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Gerosa e Capitanio

Sante Croci

COLERA

APV_RegistroRendiconto_c.120 (2)

Carismi

Linea del tempo

1837 Vescovo Ferrari-Scioglimento del voto alle Sante croci: n.638 del 10 aprile 1837: è tempo di sciogliere il voto fatto l’anno precedente in occasione del colera: quindi “istraordinaria funzione per le Sante Croci” 8,9,10 maggio per sciogliere il voto, Indulgenza plenaria, esercizi spirituali.[Avvisi a Stampa, Busta 5, fascicolo 1837, vescovo Mons. Ferrari, 10 aprile 1837]

1836 Voto alle Sante croci: tempo di Colera, è l’8 luglio 1836, si onorano “con istraordinaria funzione le SS. Croci…onde ottenere da Dio misericordioso la cessazione della serpeggiante malattia del Cholera Morbus, che ormai si è fatta conoscere quanto sia terribile e desolante”. Anche il Municipio, quindi le istituzioni civili, ha fatto voro di onorare la funzione.[Avvisi a Stampa, Busta 5, fascicolo 1836, vescovo Mons. Ferrari, 8 luglio 1836]

Carismi

Linea del tempo

1836 musicisti, opuscoli, spese, registro e libro di cassa straordinario per le celebrazioni per lo scioglimento del voto fatto (il 22 giugno 1836) alle sante croci per il colera [Fondo Sante Croci, Busta A20, fascicolo 118]

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Duplicati Anagrafici del periodo lombardo-veneto, Parrocchia di S. Faustino, Busta 75.

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Fondo Religiosi, Busta 35, Religiose S. Croce fasc. 2

1512: la peste e il sacco di Brescia Fondo Religiosi, Busta 35, Religiose S. Croce fasc. 2 Testo tratto da Enciclopedia Bresciana, vol. XII, ed. La Voce del Popolo, 1996, p. 362. “La peste si ripresentò nel febbraio 1512, in concomitanza con il terribile "sacco" di Brescia da parte delle truppe di Gastone di Foix che colpirono gli stessi Lazzaretti di S. Bartolomeo e di S. Matteo, dai quali vennero scacciati gli ammalati, e «rapite e disperse le loro cose». La situazione sanitaria, diventata gravissima, richiese dei provvedimenti straordinari. Non appena l'esercito francese lasciò la città, il primo giorno di quaresima (25 febbraio) le autorità municipali nominarono quattro ufficiali sanitari con, al loro servizio, numerosi becchini per portare fuori dalla città i morti insepolti. Il giorno 8 luglio 1512 vennero nominati altri deputati all'igiene per cercar di combattere la peste che aveva ormai superate le mura della città e mieteva vittime su vittime nei territori circostanti (…). Aggiuntasi, per la scarsità d'acqua e l'inquinamento da peste, una gravissima epidemia di dissenteria, si registrarono nell'estate 1512 dalle 30 alle 40 vittime «sia col bubbone della peste, sia in preda alle crisi dolorose e alle scariche emorragiche della malattia intestinale». Morivano, scrive Marin Sanudo, sia bresciani che soldati francesi, i rimedi erano pressoché palliativi, scarsi, e mal diretti, perché «non si trova medici per el sospeto del morbo; né barbieri che voglia salassar non si trova zucharo né medexine». Scrive il Pasero: «e nelle case giacevano gli infermi, ove i guasconi entravano senza riguardo, asportando roba e sempre più diffondendo l'infezione anche tra di loro». In quel terribile agosto morirono, ha registrato il Doneda, nel solo monastero di Santa Croce, ben 14 monache per la peste. Nonostante le misure prese, e la stagione invernale nemica del morbo, nel febbraio 1513 le vittime erano ogni giorno decine. Il Lazzaretto di S. Bartolomeo si dimostrava insufficiente, e la città veniva abbandonata da quanti potevano, mentre, veniva proibito qualsiasi assembramento fino al 30 luglio. Poi ci fu la consueta remissione invernale”.

Tematiche

Linea del tempo

Lettera del parroco don Angelo Mora (17 agosto 1867) [Carte ad annum, busta 51, fascicolo 1867, carta 5]

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Regolamenti e istituzioni, Busta 58_COLERA E VOX POPULI

Regolamenti e istituzioni, Busta 58_COLERA E VOX POPULI

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Avvisi a stampa, Busta 16, fasc. 1836_regolamento sanitario

Tematiche

il contagio

03

la malattia

01

la cura

04

AVVISI 1_CARESTIA-vescovo Morosini_18_2_1724

i medici

02

vaccinarsi

Circolari vescovili_busta 2-vol.III-29 luglio 1818

05

il linguaggio

11

i luoghi

10

Chiesa di S. Rocco-Limone del Garda (vedi foto nell'altro link) 1529-Limone- la chiesa di S. Rocco e la peste- [Inventario dei beni mobili della Diocesi di Brescia. Sezione CEI (anni 2004-2015)]La costruzione della chiesa di S. rocco sembra essere avvenuta (secondo l’ipotesi più accreditate tra le varie fatte) nel 1529 come ex voto per preservazione o per guarigione dalla peste che nel 1529 aveva colpito anche Limone. Nel 1630, anno della peste “del Manzoni”, si trovano in parecchi testamenti molti lasciti alla chiesetta di S. Rocco. Il santo aiutò anche nelle epidemie successive non solo di peste, ma anche di tifo (nella visita pastorale del vescovo Corna pellegrini del 1886 si fa cenno ad un voto di due secoli prima probabilmente riferito all’epidemia di tifo del 1672) e febbre spagnola (nel 1923 il circolo giovanile mons. Comboni raccolse una somma per celebrare messe nella chiesetta per la cessazione delle malattie. Interno della chiesa di S. Rocco a Limone Esterno della chiesa di S. Rocco a Limone

epidemie in città

12

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carestie ed epidemie

06

solidarietà

07

AVVISI B16_FASC 1831_INEDIA E PESTILENZE_9_8_1831

carismi

08

arte e devozione

09

Il caso di due parrocchie del centro storico

Arte e devozione

Limone del Garda

Limone sul Garda: Madonna_colera

Carzano di Montisola

Infiorata di Carzano di Montisola

Bedizzole

Il lazzaretto di Masciaga di Bedizzole XV sec. costruzione dell'antico lazzaretto Lazzaretto di Pontenove 1540: la Madonna è stata dipinta nel 1540 per volontà del Benaglio proprietario del territorio dove prima sorgeva il lazzaretto e dove è stata fatta erigere un’edicola 19 luglio del 1741: il massello di parete con la raffigurazione della Madonna con il Bambino viene trasportato nell'oratorio di San Nicola (che diventerà successivamente il Santuario di Masciaga, della Maternità di Maria, detto anche della Madonna del Lazzaretto)

Le Sante Croci

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L'impegno dei santi

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In una lettera del 1881 a P. GIUSEPPE SEMBIANTI, il futuro santo, padre Daniele Comboni, propone addirittura una medicina contro il colera: la tintura Perigozzo! Mio caro Padre, La tintura Perigozzo è un'ottima medicina pel Sudan, decantata da tutti i missionari e Suore nostre per molte malattie, febbri, purghe etc. Ma chi più di tutti la esalta è D. Luigi Bonomi, che mi pregò con una nota a me consegnata a Nuba, di mandargliene da Khartum. Nell'Africa Centrale (non si calcolano questi sacrifici, né cent'altri, né in Europa, né in Roma, e si misura per ignoranza l'Africa Centrale sul passetto di tutte le altre missioni; ma noi siamo superiori e queste bassezze e picciolezze, noi lavoriamo e soffriamo per puro amore di Dio e per l'anime e tiriamo avanti), come dice spesso Sr. Grigolini, tre quarti dell'anno, e di ciascun anno, si passano, dico, tre quarti di ciascun anno in languori, sfinimenti, prostrazioni etc. in seguito di che si pena a lavorare, si ha inappetenza, si dorme poco, etc. etc. (ed io ne passo, posso dirlo cinque sesti di ciascun anno, in questo stato; ma sono forte di animo, mi faccio coraggio, e tiro avanti. L'infelice e mal capitata Virginia invece soffriva meno, e lavorava per quattro, come le nostre Suore veronesi di qui sanno. Ora la tintura Perigozzo presa in questo stato, fa benissimo: ma fa bene anche per prevenire febbri, etc. etc.(…) La tintura è un rimedio efficacissimo pel colera, ed io ne ho lette tutte le prove, e la cura è razionabilissima, ma in Africa C.le il colera non v'è: si muore qui di più, ma per altre cose. Ora scrissi a D. Luigi di stendere un attestato su tutti i buoni effetti della tintura Perigozzo, perché egli è il più competente e lo manderò, e uno lo farò io in base alla mia esperienza, e all'asserto di tutti i nostri.(…)”[in https://www.comboni.org/scritti; El-Obeid 16. 07. 1881 N. 1091; (1045) – AL P. GIUSEPPE SEMBIANTI, ACR, A, c. 15/128- J.M.J. Nº 29]

Paola Di Rosa nello "spaventoso recinto" delle colerose (1836) Santa Maria Crocifissa Di Rosa (1813-1855), al secolo Paola di Rosa, vede nascere la sua vocazione proprio durante il colera del 1836 a Brescia. Vuole andare nel lazzaretto a prendersi cura di colerosi… «Vada pur dunque mia figlia nel nome del Signore; dichiaro anzi che, se non mi trattenesse il pensiero di esser padre di famiglia, vorrei seguitarla anch’io» la autorizza il padre Clemente di Rosa. Ricevuto l’assenso anche della direzione dell’ospedale, Paola di Rosa insieme a Gabriella Echenos Bornati «cominciò a frequentare lo “spaventoso recinto”, co­me ella chiamò il luogo, il 24 giugno, nei giorni del massimo infuriare della ma­lattia. Paola, oltre l’intenzione di dedicarsi al conforto religioso delle ammala­te, dovette svolgere tutte le mansioni richieste da tale assistenza, come pulizia, somministrazione di medicine, composizione di cadaveri». Paola “restò nel Lazzaretto… finché cessò il colera, cioè per qualche mese: vi stava, dunque, giorno e notte e non fu colta dal morbo” dichiara nel 1894 la Paola Luigia Tedeschi, allora Superiora generale delle Ancelle della Carità, nel Processo Informativo Super Fama Sanctitatis Vitae della futura santa. Ecco alcune testimonianze tratte dalle Cause di beatificazione, Processo informativo S. Maria Crocifissa Di Rosa, vol. I: Positiones «L’anno 1836 infierendo nella città e provincia di Brescia il colera, la Paolina che s’era offerta a Dio in sacrificio di carità supplicò il Padre del permesso di assistere ai colerosi. Ottenutolo entrò con una compagna nel Lazzaretto. (…). Ebbe notizia due giorni dopo da che era entrata in quel Lazzaretto che la sorella Suor Maria Crocifissa [ndr della quale poi prenderà il nome] e il fratello Filippo erano stati colpiti dal colera, la prima guarì, ma l’altro ne morì, assistito e confortato dalla Paolina fino all’ultimo. Consolò come meglio poté i parenti e tornò all’assistenza delle sue care inferme dove perseverò tutta l’estate, finché cessò il morbo». 18 giugno 1894 testimonianza di Paola Luigia Tedeschi «Mi chiamo Paola Luigia Tedeschi, al secolo Ottavia ,(…) di anni 73 , Superiora generale delle Ancelle della Carità (…) Nel colera del 1836 [ndr Paola di Rosa, la futura Maria crocifissa] domandò ed ottenne di entrare nel Lazzaretto per assistere i colerosi: e fu là che concepì il pensiero della fondazione dell’Istituto. Mentr’era nel Lazzaretto, sentì che la sua sorella Maria Crocifissa, salesiana, era stata colta dal colera. Dapprima voleva uscire, per recarsi a visitarla: ma poi pensò che le povere inferme del Lazzaretto restavano in mano dei salariati, ne ebbe compassione e restò nel Lazzaretto… finché cessò il colera, cioè per qualche mese: vi stava, dunque, giorno e notte e non fu colta dal morbo. Procurava il bene corporale e spirituale dei colerosi: assistita dalla sua compagna sig.ra Bornati Echenos, che fu poi la prima vicaria generale dell’istituto». Testimonianza di Maddalena Girelli (anno 1897) «Io sottoscritta Maddalena Girelli toccando i Santi Vangeli di Dio… giuro e prometto di dire la verità…[ndr quando] verrò esaminata nella causa di beatificazione e Canonizzazione della Serva di Dio, Maria Crocifissa di Rosa..». «Mi chiamo Maddalena Girelli (…), superiora delle Figlie di S. Angela… [la] Conobbi personalmente fino all’età di 11 anni in cui fui presso il Collegio…fu compagna di educandato della mia mamma…Sentii anche parlare di lei in casa…lessi la vita scritta da mia sorella [ndr Elisabetta]. (…) vide l’abbandono in cui si trovavano le ammalate, specialmente per quanto riguarda l’anima. La nacque quindi l’idea di fondare la Congregazione».

Le malattie

Di generazione in generazione…

“Io sont la morte che porto corona/Sonte signora de ognia persona/Et cossì son fiera e dura /Che trapaso le porte et ultra le mura/Et son quela che fa tremar el mondo/Revolzendo mia falze atondo atondo”. Questi versi iniziali del poema della morte - che accompagna la Danza Macabra affrescata da Simone Baschenis nel 1539 sulla facciata sud della chiesa di S. Vigilio a Pinzolo (TN) – riprendono in chiave allegorica il tema di come la morte non solo sia universale ma danzi con tutti, dal papa al semplice sacerdote, dall’imperatore al cavaliere, dal principe al miserabile, senza distinzione, senza privilegi. Non è un caso che le Danze Macabre siano nate proprio dopo la fine della grande pestilenza del 1350, che aveva in qualche modo avvicinato gli individui sotto l’insegna di una morte incombente e livellatrice. Morte e peste che si legano come espressione di una società corrotta che Dio vorrebbe punire. Agostino di Ippona ricorre in più opere all’immagine della peste quale metafora della diffusione dei vizi, dell’empietà, dell’eresia e di ogni altro male morale o spirituale che, a partire dall’errore di uno o pochi individui, infetta l’intera comunità. La peste come la lebbra, che fu endemica in Europa già anticamente, e il colera portavano ad una distruzione e disfacimento tale del corpo da renderlo qualcosa di immondo, che suscitava disgusto e orrore. I bubboni della peste e la rigidità algida bluastra propria del colera violavano la santità del corpo, e i corpi corrosi, spesso prelevati nell'oscurità della notte, venivano gettati in fosse comuni, coperti di pece perché sparisse di questi anche il benché minimo ricordo, senza alcuna benedizione. Sulla pietas verso i morti, sovviene la scena manzoniana della madre della piccola Cecilia, vinceva l'isteria, la paura, i decreti dei vari Magisteri della Sanità. L’arrivo della morte nera portava una disgregazione improvvisa e devastatrice del tessuto sociale in tutte le sue componenti, dalla famiglia alle organizzazioni statali, economiche e religiose: “Et erano soteradi sencia sacerdoti. Lo padre non visitava il figlio. Né el figliolo il padre. Charitade era morta. Sperantia era persa”. Quadro icastico possente questo del medico Guy de Chauliac, archiatria del papa Clemente VI. Quadro che si ripeterà ad ogni pandemia per tutto il basso medioevo e l’età moderna, potremmo dire anche ai giorni nostri, ‘di generazione in generazione’… L’ignoranza dell’eziologia delle singole malattie portava a spiegare il tutto con la teoria miasmatica, ereditata da Ippocrate e Galeno, dove la peste come altre patologie era dovuta alla inalazione di vapori corrotti. Ripristinare le qualità originarie dell’aria era l’unica possibilità di vincere la malattia. Così si ‘inzolfavano’ le case e le strade, si purificava l’aria con legni aromatici e si portavano strette al volto spugne imbevute di aceto o limone. Per i malati non si andava oltre salassi e purghe o alcuni farmaci quali il mercurio, il digitalis, le radici dell’ipecacuanha (un forte espettorante) e la scorza peruviana, il chinino. Dopo generazioni (e secoli) la medicina non fece progressi almeno fino alla fine del XIX secolo, quando si iniziarono a scoprire gli agenti patogeni delle singole malattie, mentre già a fine Settecento lo Jenner aveva messo a punto il vaccino contro il vaiolo. Così le uniche armi per combattere le pandemie nel passato furono le legislazioni sanitarie come l’istituzione dei cordoni sanitari, la quarantena per le navi e merci che provenivano da luoghi infetti (nel 1448 il Senato veneziano prolunga il periodo d’isolamento delle navi da trenta giorni, legge del 1377, ad una ‘quarantina’), l’isolamento forzato dei malati nei lazzaretti (il primo lazzaretto in Europa nasce nel 1423 sull’isola di Santa Maria di Nazareth a Venezia), la chiusura di ogni attività e commercio. Per muoversi occorrevano le cosiddette Fedi di Sanità. Non si pensi che nel passato si chinasse la testa, in obbedienza cieca. Non si contano atti di ribellione alle norme stabilite, nascondimenti di malati, proclami di osata libertà personale limitata, che si alzavano sia dalla comunità civile come dalla Chiesa. Compreso che le processioni portavano ad una recrudescenza del male, meno del perché, queste vennero vietate e sigillate le chiese. Le fughe maggiori venivano solitamente dai lazzaretti, vissuti come vere e proprie prigioni, dove abusi, furti, negligenze da parte del personale erano all’ordine del giorno. Se da una parte, nel tempo, si sviluppano devozioni verso nuovi santi, come S. Rocco e S. Sebastiano, nascono nuove congregazioni per aiutare gli ammalati ed una intensa vita spirituale ‘casalinga’ è proposta da S. Carlo Borromeo durante la peste del 1576, con libricini stampati ad hoc per non lasciarsi prostrare e impegnare invece il tempo in preghiere, dall’altro suscitava una certa difficoltà, come già notava San Cipriano nel suo De mortalitate (scritto nel 252 durante la omonima pestilenza), “il fatto che il contagio di codesta malattia colpisca i nostri fratelli e i pagani in modo uguale e senza distinzione: come se il cristiano dovesse credere a patto di essere immune dal contagio dei mali”. Forse fu proprio per esorcizzare questa precarietà ed ansia che con la peste nera e successive pestilenze tornò in auge la tradizione del capro espiatorio. Divenne un topos di cui fecero le spese gli emarginati, i diversi, gli ebrei, i malati di sifilide che un’ordinanza reale francese del 1493 minacciava di buttare nella Senna qualora si sarebbero trovati a Parigi. Ricordiamo le terribili torture inflitte a due cosiddetti untori durante la peste del 1630, e descritti dal Manzoni ne La colonna infame. Di generazione in generazione… verrebbe spontaneo chiedersi, visto il momento attuale che stiamo vivendo, quanto delle generazioni passate possiamo ora dimenticare, cancellare e quanto invece comprendere, fare nostro per, a nostra volta, essere tramite, ponte per le generazioni future…

Peste

Leggendo l’opera La peste di Camus, risulta evidente già dal titolo come la protagonista del romanzo sia proprio la peste: questa è “il momento agente, mentre coloro che ne sono colpiti sono in grado soltanto di reagire, di compiere azioni di risposta ad essa” (B. Sändig). Dal momento in cui la peste si ripresentò sulla scena europea, attorno al 1340 fino alla seconda metà del Settecento, fu sicuramente un personaggio che influì profondamente sulla vita europea in senso lato, sia demografico che civile, economico e politico, mentre la popolazione quasi sempre dovette soccombere a questa, in tempi nei quali né medicine né prevenzione riuscirono ad arginare la sua forza letale. La peste fin dall’antichità (seppur si è certi che solo quella di Giustiano (542) fosse vera peste), soprattutto per via marittima, giunse in Europa da focolai endemici antichissimi, quali l’India e il Tibet, senza però mai acclimatarsi allo stato endemico, almeno fino al 1300. La peste, rispetto ad altre malattie, presenta un ritmo stagionale ben netto. Se la peste polmonare è tipica della stagione invernale, la peste bubbonica preferisce un clima più caldo. Anche la letalità è molto diversa tra le due forme: la prima, che si trasmette da uomo a uomo tramite starnuti o tosse, presenta una mortalità quasi al 99%, la seconda invece tra un 60 e 85% dei contagiati. Fu la peste bubbonica a devastare per secoli, con continue pandemie o più leggere epidemie, il continente europeo senza che si riuscisse a coglierne l’eziologia. Solo nel 1894, il virologo Alexander Yersin scoprì l’agente responsabile della peste, un germe (yersinia pestis), il quale infetta le pulci dei topi (in genere il rattus rattus o topo nero) e da questi può saltare sull’uomo, infettandolo (in tempi recenti, nuovi studi hanno sottolineato come la forte letalità in clustering familiari porti a pensare come il contagio potesse passare da uomo a uomo, quando il malato sviluppava complicanze polmonari). Dall’antichità si era in qualche modo collegata la diffusione della malattia con una moría precedente di topi, ma tutto finiva lì. La teoria miasmatica - seconda la quale la peste come altre malattie si trasmetteva a causa di miasmi perniciosi dovuti ad una mutazione dell’aria causa vapori corrotti - stava alla base della scienza del tempo. Proprio in virtù che la causa fosse un’aria malsana, corrotta, l’unico antidoto poteva essere quella di portare con sé sacchetti di sostanze odorifere come le spezie, spugne imbevute di aceto o sostanze acidule. Proprio in virtù di questa teoria i medici del tempo indossavano maschere a forma di un grande becco d’uccello lungo e adunco, nella cui punta venivano poste paglia e sostanze aromatiche (ambra, mirra, lavanda, menta, chiodi di garofano, aglio, spesso anche garze imbevute di aceto e oli essenziali) in funzione protettiva. Solo verso la metà del Cinquecento, il medico Girolamo Fracastoro congetturò che gli agenti causali fossero minuscole particelle (seminaria), diversi per ogni singola malattia, che si muovevano nell’aria. Ancora agli inizi del Settecento, il Muratori, nel suo Trattato del governo della peste (1714) nota come “consiste la pestilenza in certi spiriti velenosi e maligni, che corrompono il sangue”. Le autorità civili certo non rimasero inerti, si cercò con quarantene e provvedimenti ad hoc di almeno contenere la diffusione del contagio. Si calcola che la peste nera, che si inserì su un contesto decennale di carestie e denutrizione, abbia decimato di un terzo la popolazione europea (circa 25 milioni di vittime) che non riuscì, anche causa nuove crisi alimentari e guerre, a raggiungere un trend positivo se non solo verso la fine del Cinquecento. Quando sembrava che finalmente la popolazione europea stesse recuperando, si presentarono anni di forti carestie (ricordiamo la piccola glaciazione del ‘600), contrazione dei commerci e infine la peste del 1630, la cosiddetta peste del Manzoni, portata dalle truppe imperiali durante la guerra dei Trent’anni. Questa portò a delle perdite nell’ordine del 23/33% della popolazione. Le continue crisi demografiche nel tempo abbassarono la fecondità che rimase tale almeno fino agli inizi del Settecento, quando, per un insieme di concause, la peste si ritirò, lasciando spazio ad altre malattie quale il vaiolo, il tifo, la tubercolosi, letali ma non quanto la nostra ‘protagonista’.

Vajolo

“Più dell’oro (…) all’uomo è cara/Questa del viver suo lunga speranza:/Più dell’oro possanza/Sopra gli animi umani ha la bellezza./E pur la turba ignara/Or condanna il cimento,/Or resiste all’evento/Di chi ‘l doppio tesor le reca; e sprezza/I novi mondi al prisco mondo avvezza”. In questi versi tratti dall’ode L’innesto del Vaiuolo (1765), Giuseppe Parini coglie con incisività il motivo del perché il vaiolo fosse il ‘flagello epidemico’ più temuto dopo la peste e il tifo, pur con una mortalità in media non elevata (tra il 20/30% della popolazione), denunciando l’ottusa superstizione (prisco mondo) che si oppone alle innovazioni mediche atte a vincere la malattia. Dagli inizi del Cinquecento, il vaiolo inizia a serpeggiare in Europa più che con epidemie gravi con focolai sparsi, mentre è proprio nel Settecento, quando la peste allenta la presa, che la malattia compare con una recrudescenza più letale. Poiché questa è causato da un virus, trasmesso da persona a persona, si può facilmente comprendere come a causa dell’alta densità raggiunta della popolazione nei conglomerati cittadini, il sec. XVIII fu segnato da continue ondate epidemiche. Caratteristica della malattia - la cui origine sappiamo essere molto antica, ed anch’essa di provenienza asiatica (Cina e India, le rive del Gange) – è il colpire quasi esclusivamente le classi più giovani (5/15 anni), indistintamente da i tuguri (…) ai regj tetti, togliendo loro se non la vita, appunto la bellezza. Qualora il contagiato sopravviveva, il viso e il corpo risultavano però deturpati e sfigurati da profonde cicatrici. Questo comportava un isolamento dell’individuo dalla società proprio nell’età fertile, incidendo così sulla futura capacità riproduttiva delle nuove generazioni, causa la contrazione dei matrimoni. Poiché piccole epidemie di vaiolo si avevano ogni dieci/quindici anni, si può facilmente intuire come, in età di Antico Regime fino alla scoperta del vaccino, la popolazione europea stentasse ad avere un trend di crescita positivo. Agli inizi del Settecento, Lady Maria Montagu importò in Inghilterra il cosiddetto ‘innesto del vaiolo’ (o inoculazione), antica misura profilattica praticata in alcune zone dell’Asia, per immunizzare le persone dal contagio. Questa pratica venne promossa in diversi paesi (si pensi alla Risoluzione aulica del 12.06.1769 dell’imperatrice Maria Teresa che la rese obbligatoria nei domini asburgici), ma ebbe scarso successo poiché presentava rischi non trascurabili in quanto l’inoculato diventava a sua volta fattore di possibile contagio e poteva sviluppare la malattia in modalità anche letali. Fu solo grazie alla scoperta del vaccino da parte del medico inglese Edward Jenner (1796) che iniziò in Inghilterra la pratica della vaccinazione vera e propria. Sul continente questa fu introdotta grazie alle conquiste napoleoniche, anche se con notevoli difficoltà, come dimostrano i vari richiami a vaccinare i fanciulli da parte delle Autorità civili ed ecclesiastiche (anche se quasi sempre dietro una circolare vescovile vi era l’imput dell’Autorità centrale). Così in un Manifesto a stampa del maggio 1807, emanato dalla Commissione di sanità del Dipartimento del Mella, si legge: “Il Vajuolo umano è ricomparso a funestare questo Dipartimento (…) Questo infortunio comprova la fredda indolenza de’ Padri, e la loro mal intesa contrarietà ad assoggettare i propri Figli alla Vaccinazione”. Ancora durante tutto l’Ottocento vi furono ripetute epidemie di vaiolo (1829-1830/1848-1849 e 1854-1855). Alcuni storici propendono a spiegare questa ripresa dal fatto che il vaccino non dava una immunità perenne e spesso chi si trasferiva dalla campagna in città (è ormai iniziata la rivoluzione industriale), non aveva acquisito immunità precedenti, essendo le zone rurali raramente toccate dalla malattia. Ancora oggi non si ha una cura specifica per il vaiolo, malattia che proprio in virtù della vaccinazione è stata dichiarata malattia eradicata dall’OMS nel 1980.

Tifo

Il tifo (definito una volta spesso come febbre tifoidea), seppur meno letale di altre malattie come la peste o il colera fu per frequenza delle sue epidemie uno dei flagelli più gravi e perniciosi dei secoli passati. Mentre il tifo cosiddetto addominale, dovuto all’acqua inquinata, colpiva generalmente le classi più giovani (10/20 anni) e aveva una letalità inferiore del 15%, il tifo esantematico o petecchiale (chiamato così causa le piccole e numerose petecchie o soffusioni emorragiche che cospargono il corpo del malato) è una malattia trasmessa dai pidocchi. Malattia perniciosa delle classi più umili e miserabili della società, costrette a vivere in ambienti malsani e umidi, spesso sovraffollati, con gravi carenze d’igiene, come potevano essere gli ospizi, le caserme, ma anche le semplici abitazioni dei quartieri più poveri delle grandi città. Se il tasso di morbilità oscilla tra il 20 e il 40%, colpendo in modo particolare bambini e anziani, vi furono periodi in cui il tifo decimò le popolazioni, stremate dalle continue crisi di sussistenza in età di Antico Regime. Carestie, pestilenze di animali, guerre e passaggi di truppe, che sempre sono stati l’habitat naturale delle pulci, indebolivano organismi già debilitati e denutriti, sui quali la malattia infieriva facilmente. Non è un caso che le epidemie scoppiassero più frequentemente nei mesi invernali, quando gli ambienti chiusi erano più affollati, e alla fine della primavera quando solitamente si andavano esaurendo le scorte alimentari dell’anno precedente. Non sappiamo se la malattia fosse presente già nel Medioevo, fu il grande medico Gerolamo Fracastoro a descriverla, per la prima volta, nel Cinquecento. Non sempre è stato facile, nei secoli, attribuire una epidemia alla diffusione del tipo petecchiale piuttosto che non alla denutrizione o a malattie connesse alla sottoalimentazione, come per esempio lo scorbuto, o a patologie quali quelle legate all’apparato respiratorio in inverno, all’apparato digerente in estate. Non è ancora un caso che prima di epidemie di peste o colera vi fossero epidemie, più o meno estese, di tifo petecchiale. Ancora nel 1800, sconosciuta l’eziologia, il medico livornese Palloni, in una sua opera del 1817, nota come il tifo petecchiale sia “una febbre essenziale esantematica, costituita da un contagio sui generis (…) che il Corpo Umano posto sotto date circostanze ha la facoltà di produrre il miasma predetto”. Il Palloni nota però come la produzione di questo miasma stia in assembramenti di “Uomini malsani, e mal proprj in un luogo ristretto, sudicio, e non ventilato come le Carceri, le Navi, li Spedali, le Ambulanze militari”, e come indispensabile sia una rigorosa ventilazione dei locali dove si vive, così come una nettezza esemplare degli stessi, grazie a fumigazioni ossigenanti che possano rendere l’aria salubre. Consigli certamente utili, ma forse difficili da mettere in pratica in luoghi o quartieri dove le persone vivevano ammassate, con una alimentazione povera o insufficiente. Questi consigli valevano anche per altre malattie, mali più silenziosi come la tubercolosi, sia ossea che polmonare, la quale falcidiò intere generazioni di fanciulli e fanciulle fino alla scoperta degli antibiotici e la vaccinazione, che in Italia venne resa obbligatoria solo nel 1970. Solo all’inizio del Novecento si comincia a trovare leggi che obbligano le case come gli educandati, gli ospedali, a migliorare l’illuminazione naturale e l’areazione dei locali.

Colera

Il colera morbus asiaticus, che raggiunse l’Europa agli inizi del sec. XIX, costituisce una malattia nuova rispetto al colera presente sul suolo europeo già anticamente. Il morbus asiaticus, endemico invece in Asia, in particolare nel delta del Gange, raggiunse l’Europa a partire dalla Russia, colpita nel 1829. All’inizio del 1831 entrava in Polonia e di lì, attraverso l’Impero asburgico, in Germania, Scandinavia, per sbarcare in autunno in Inghilterra e Francia e infine, nel luglio-agosto del 1835, in Italia. La rapida diffusione del colera fu facilitata dai notevoli progressi che si erano compiuti sia nei mezzi come nelle vie di comunicazione, mentre la sua virulenza e gravità dalle scarse e spesso disastrose condizioni igienico-sanitarie delle città, dove spesso le acque dei pozzi potabili si contaminavano con le acque reflue. Il vibrione colerico (isolato solo nel 1882 da Robert Koch) di per se stesso non è un agente patogeno pericoloso, in un individuo sano non oltrepassa l’ambiente acido dello stomaco, ma se questo penetra in una persona indebolita da malattie preesistenti, da una alimentazione al limite della sussistenza e in età già avanzata (ai tempi oltre i 55 anni) la mortalità raggiunge il 50/70% dei contagiati. Ciò che colpì la popolazione, lasciandola sgomenta e smarrita, stando alla numerosa letteratura del tempo, oltre il decorso rapido, era la terribile agonia dei contagiati, caratterizzata dal cosiddetto stadium algidum, uno stato in cui i malati stavano per giorni già freddi come cadaveri, con gli occhi e le bocche spalancati, ‘con tutte le apparenze della morte’, tanto che molti venivano portati nelle fosse comuni senza che neppure i medici riuscissero a capire se fossero già morti o ancora vivi. L’ignoranza dell’agente patogeno non permise alcuna cura, anzi salassi e purghe affrettavano la morte che avveniva per lo più per disidratazione. Per tutto l’Ottocento il colera inferì in Europa, in Italia come nella città di Brescia e ben sei furono le pandemie: negli anni 1835-1837, 1849, 1854-1855, 1865-1867, 1884-1887, 1893 e 1910-1911. Nel complesso, il colera causò almeno mezzo milione di morti, anche se studi recenti (Forti Messina) portano ad aumentare anche di molto le stime di alcuni decenni fa (Del Panta): dalle 500.000 vittime si passerebbe a quasi 700/800.000 vittime complessive). Come per altre epidemie, tra le classi agiate molti furono coloro che si trasferirono in campagna, lasciando cosi la città vuota, come ben descrive il medico Manzini riguardo Brescia: “Era uno squallore che ti agghiaccia il sangue nelle vene, il veder deserte le contrade, e chiuse gran parte delle botteghe per la morte di questo o di quello, o per la fuga di chi cercava scampo: era uno squallore veramente grande il vedere continuamente portarsi il sacro viatico agli infermi e di dì e di notte, e il continuo tintinnio del campanello che diventava nunzio di morte!”. Proprio per l’essere una malattia così brutale e misteriosa, vi furono molti che individuarono il capro espiatorio nel Governo stesso in combutta con i medici, come ricorda l’Odorici nelle sue Memorie: “V’è troppa gente!”. In realtà l’Imperial Regia Delegazione Provinciale, temendo il peggio, già dal 1835 aveva disposto una serie di avvisi e provvedimenti (come sanificare gli ambienti, gli abiti, le modalità di tumulazione dei cadaveri), che purtroppo portarono però pochi benefici. Fu proprio grazie al colera che, verso la fine dell’Ottocento, nelle città di tutta l’Europa si cominciò a risanare e ammodernare le strutture igienico-sanitarie come le conduzioni idriche e fognarie.

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1577 – peste- Lettera di frà Paolo Bellintani dal Lazzaretto di Brescia allo Speciano [in Brixia sacra. Memorie storiche della Diocesi di Brescia, n.s., XI (1976), 3-4, nota 33 pp. 47-48 che riporta la lettere in Biblioteca Ambrosiana, Epistolario di S. Carlo Borromeo, F. 51 inf. 257] «Molto Reverendo Signor mio Carissimo. Havendo io promesso di dar ragguaglio a Vostra Signoria, non vi mancherò, benché poca gli ne voglio dare per la brevità del tempo che è occorso pure quel poco gelo farò sapere però dico, che Monsignor Reveren­dissimo si è retirato fuori li Brescia in un luogo chiamato Cobiato quattro miglia di­stante di Brescia, c qui se ne sta molto retirato senza mai uscire, dove par che dia admiratione al popolo, tanto più che le cose della Chiesa vanno molto fredde, et per nominarvene una, farò sapere che in Domo non si celebra che una Messa sola, et qual­che volta, ho inteso che non si celebra niente; circa alli Santissimi Sacramenti par che siano scordati, per non vi essere gente, che li ministrano, perché li parochiani sono fuggiti, e parte morti, dove il popolo grida confessione, e non vi sono chi l’ascolta. Circa il sepelir de morti, li sepeliscono in luoghi non consacrati senza alcuna Religiosità Christiana, ma son condotti là come animali brutti ad arbitrio de cani, et lupi. Le Mo­nache sono scapate fuori, et sono andate, chi qui, chi là, dove più li è parso. Circa poi alle cose temporali, qua non vi è governo alcuno, perché gli signori che gli sono sopra non stanno stabili, ma si mutano ogni quindeci giorni, scaricandosi uno addosso all’altro, et niuno non fanno cosa alcuna. Li monatti se ne vanno per la Città a suo beneplacito senza guardia, senza campanili, senza segno alcuno di essere brutti. Et di più gli hanno dato alloggiamento all’hostaria di Tre Re. Luogo da infettare la città se non fosse infetta, et ivi fanno quelle maggiori insolentie, che si possano fare, come robbare, sasinare questo e quello, scusandosi che non son pagati, et sono in tanto numero che basterebbero a purgare quattro Brescie. Circa poi alla mortalità par che sia cessata, come in vero è, perché alcuni giorni ne moreva sino a quattro cento, et adesso ne more da vinticinque o treta tra il Lazaretto e la Città. Qua nel Lazaretto vi sono due miglia Infermi, c da trecento altri tra officiali, et altri sanj, in luogo tanto angusto come questo che se stanno addosso come fanno le sardelle l’uno all’altro, non solo stanno nelle camere et gabbane, ma stanno anchora nella propria Chiesa, et portici mal governati; poi circa il vivere, per non vi essere persone attj idonej a tale impresa, ma ogn’uno tende a robbare, vi se sono poi molti, et molte che stanno in le loro vigne a far lor quarantene, et molti ve ne sono de infermi senza alcuna guardia, di modo che possono andare dove gli piace a loro, et vanno a meschio senza alcuno riguardo, molti altri infinitissimi desordini vi sono che non li so. In la città non vi è più di 3000 Anime se gli arrivano, le botteghe son serrate, le case son spiantate, et l’herba cresce per le strade. Cosa orrenda da vedere, se la peste è cessata per non essere più persone da morire. Altro non so che dire, se non che ogni cosa va in fracasso, et con questo facendo fine mi raccomando a Sua Signoria pregandola che voglia dar ragguaglio di queste cose a Monsignore Illustrissimo et al signor Ottaviano Rozza. Dal Lazaretto di Brescia alli 28 d’Agosto 1577».

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ACTA PRIMORDIALIA_S BARTOLOMEA CAPITANIO

ACTA PRIMORDIALIA_S BARTOLOMEA CAPITANIO

SS. Capitanio e Gerosa 1826 Vincenza Gerosa e Bartolomea Capitanio - solidarietà della chiesa e santità venne fondato il ricovero degli ammalati nella casa delle sorelle Gerosa, diretto dalla Capitanio [Fondo Curia Vescovile, Causa di beatificazione e Canonizzazione: Acta primordialia super fama sanctitatis-1885; beat. Et Canoniz. Processus Ap.licus super duobus assertis miraculis-1923; brxien Canonizationis, Processus Apostolicus-1941] Il legame tra le due Sante di Lovere, Vincenza Gerosa (29 ottobre 1784- 20 giugno 1847) e Bartolomea Capitanio (13 febbraio 1807- 26 luglio 1833), e le epidemie è che entrambe si sono santificate nell’ assistere e curare i malati, per i quali crearono un nuovo ordine di suore: Suore di Carità -Istituto di Maria Bambina. La Gerosa decide di utilizzare la propria casa come ricovero per gli ammalati, poveri, e l’idea viene realizzata nel 1826. A dirigerla la casa-ricovero viene chiamata Maria Bartolomea Capitanio. Le due Sante, e le loro suore, operano in contemporanea a Maria Crocifissa di Rosa assistendo anche gli ammalati delle varie epidemie che dal 1826 in poi flagellano Brescia e provincia.

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Regolamenti e istituzioni, Busta 58, 1836_ORFANI DEL COLERA

Tematiche

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Cause di beatificazione, Processo informativo S. Maria Crocifissa Di Rosa, vol. I

Carismi

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Avviso a stampa, Busta 2, fascicolo 4, del Cardinal Querini 30 novembre 1735

Avvisi a stampa, Busta 5, 1837_SCIOGLIMENTO VOTO SANTE CROCI-COLERA

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Accuse...

Si levano parole di accusa... RI_B_58_F691_1836_colera e pregiudizi_cigole

Indagini e risposte

Regolamenti e istituzioni, Busta 58, 1836_colera e pregiudizi_cigole

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Regolamenti e istituzioni, Busta 58_COLERA E VOX POPULI

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Pergamene Murachelli, 10, 1496_peste_testamento

Inventario dei beni mobili della Diocesi di Brescia. Sezione CEI (anni 2004-2015), Immagini del catasto storico e Stralcio [dall’analisi storico-critica] dalla Relazione storica per il Restauro dell’edificio noto come “ex Lazzaretto di S. Bartolomeo”

Inventario dei beni mobili della Diocesi di Brescia. Sezione CEI (anni 2004-2015), Immagini del catasto storico e Stralcio [dall’analisi storico-critica] dalla Relazione storica per il Restauro dell’edificio noto come “ex Lazzaretto di S. Bartolomeo” (Catasto napoleonico, 3, 435)

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Avvisi a stampa, Busta 16, 1831_INEDIA E PESTILENZE

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Avvisi a stampa, Busta 16, 1806

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Regolamenti e istituzioni, Busta 1, 1809_Regno d'Italia e indulto x digiuno

Regolamenti e istituzioni, Busta 1, 1809_Indulto carni

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Bollettino DiocBS, 1818_IL PAPA AL CLERO BRESCIANO_spagnola

Avvisi a stampa, Busta 16, 1831_Parroci e malattie sospette

Dal carteggio del vescovo Gaggia

Raccomandazioni igieniche…vescovili (1918) Brescia 1918. Circolare del vescovo Ferdinando Rodolfi di Vicenza ai fedeli [Carte ad annum, busta 62, 1918_GAGGIA_RACCOMANDAZONI PER INFLUENZA] Intro Fatichiamo a immaginare che un vescovo possa diffondersi in una circolare riguardo alle pratiche igienico-sanitarie che la popolazione dovrebbe adottare per scongiurare un contagio epidemico. Eppure avviene così nel 1918, quando, stante il diffondersi della ‘spagnola’, famigerata influenza pandemica, il vescovo di Vicenza scrive al clero e ai fedeli e lo fa con raccomandazioni di profilassi igienica. Innanzitutto che ci sia un’igiene dello spirito: ognuno abbandoni eccessive preoccupazioni e conservi una ‘calma serena’. Quindi passa in rassegna le norme di igiene da rispettare: il virus si sviluppa sulle mucose, quindi tenere ben puliti naso e bocca; in casa arieggiare frequentemente: “dove entra il sole non entra il medico”! In chiesa non venga lasciata l’acqua benedetta, il sacerdote si cambi l’abito dopo la visita ai malati e nei paesi si vigili sugli acquedotti e i pozzi, perché l’immondizia non vada ad inquinarli… la chiesa come tramite culturale della vita quotidiana delle persone.

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Archivio Parrocchiale di Vesio, Registro dei morti, 3, p. 18

Antivax ottocenteschi? (1804) Brescia, 1804 luglio 8. Circolare del vescovo Gabrio Maria Nava a parroci e fedeli [Circolari vescovili, anno 1804] Intro Antivax nell’Ottocento? Il vescovo scrive ai fedeli invitandoli all’uso del vaccino per prevenire il vaiolo ed esorta i parroci a consigliare i diffidenti: “la vaccinazione fu sempre praticata senza pericolo e con universale salubrità”.

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Avvisi a stampa, Busta 2, 1743_Querini divozioni per prevenire il contagio dalla peste di Messina

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Corrispondenza particolari, Busta 67, 1816_CARESTIA_EPIDEEMIA_MALONNO

Corrispondenza particolari, Busta 67, 1817_CARESTIA_EPIDEMIA_TIFO_MALONNO

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Avvisi a stampa, Busta 16_fasc. 1836_regolamento sanitario